domenica 6 ottobre 2013

Lettera a mio figlio di Emilia Fragomeni - Redazione



Pubblichiamo lettera e versi della poetessa Emilia Fragomeni, proseguendo il tema già aperto nel post precedente dal Dott. Costantino Simonelli 


Figlio mio, 
ti scrivo, perché solo scrivendo mi sento libera di potermi esprimere.
Tu prima sfuggivi, sembravi un fantasma frastornato, che guardava la vita dal di fuori. Ma ora hai trovato il modo giusto per guardare il mondo veramente, anche se questo è un momento difficile ovunque; non passi più le tue giornate a pensare che tutto fa schifo ormai in Italia, perché, quando tutto fa davvero schifo, c’è il rischio di smettere anche di pensare. Tu, per fortuna, non l’hai fatto. E hai scelto una strada difficile, impensabile per noi. Sei andato via, in Inghilterra, lontano dal tuo paese e da noi, per perseguire la dignità del lavoro vero e onesto, come facevano gli emigranti del primo Novecento, anche mio nonno. Sentiti fiero della scelta che hai fatto e portala avanti con forza e determinazione! Innamorati del lavoro che “ti darà un vero futuro”, anche se non diventerai ricco! Non è ciò che tu vuoi, d’altronde! Sentiti soddisfatto di te! Essere felice per forza non è possibile, ma neanche infelice per scelta.


Tu pensi che io sia egoista e forse hai ragione, ma credo che nessuna madre sia contenta di vivere lontano dai propri figli, soprattutto quando deve accettare questo allontanamento come ineluttabile conseguenza di una società ormai allo sfascio e non come desiderio vero di un figlio! Tu mi hai vista piangere, anche se non avrei voluto che tu mi vedessi; e chissà cosa dici tra te e te: “Mia madre è un’egoista, perché mi vuole con sé”? Oppure: “Mia madre soffre per me e non riesce a fingere”? Sarebbe bello dirti che ora non piango più, ma non è vero, piango da sola e soffro da sola. E vorrei poterti dire il perché, ma non lo faccio. Vorrei poterti dire che mi manchi tanto. Vorrei che tu tornassi da me. Ma so che ora questo non è possibile e chissà se lo sarà mai! Tu, però, non essere arrabbiato con me se qualche volta vedi i miei occhi lucidi. Pensa che è normale per una mamma. E anche per un papà. Mi pesa l’impotenza di non poterti aiutare e cerco di tenere a bada i moti di sconforto, ripetendomi che nessuna barriera può limitare la tua vita, tanto meno il mio amore. 

Ricordo la trepidazione ansiosa con cui ti ho aspettato e i momenti meravigliosi della tua infanzia: eri un bambino allegro, aperto, generoso. Ricordo, in particolare, l’odore dei pini marittimi e il borbottare lontano dei motori dei pescherecci al rientro, dopo una notte di pesca: davano inizio a una nuova giornata. Abitavamo a Bogliasco, vicino al mare; al mattino udivo i due rumori più dolci del mondo contemporaneamente: il mare, appunto, che s’infrangeva sugli scogli e il calpestio dei tuoi piedini nudi, gioiosi, sul pavimento. Ricordo, poi, i pomeriggi passati assieme a riflettere sui passi dei filosofi che dovevi studiare, Seneca, Platone, Kant… Tu eri bravissimo e appassionatissimo; mi facevi tantissime domande, a cui non sempre si poteva dare una risposta. “Non bisogna subire l’esistenza. Bisogna guardare gli ostacoli a viso aperto, con insistenza e sfrontatezza, cercando di ribellarsi a tutto ciò che è ingiusto.”, dicevi tu. E oggi hai messo in atto proprio quelle riflessioni, le hai fatto diventare concretezza, hai abbandonato la via del silenzio e della cupa rassegnazione, apparentemente facile, e hai cercato le reali possibilità per “essere” veramente.
Ora capisco di averti cresciuto libero dalle abitudini dei modelli precostituiti, quelli senza slanci e aperture. Ora sei davvero alla prova e cerchi disperatamente, ma con tenacia, le risorse per non sentirti più una lucerna vuota (come molti altri ragazzi della tua età, purtroppo), senza energia vitale. “Non è giusto accettarsi come povere creature, senza un moto di rifiuto e di ribellione”, ripeti spesso, a ragione, quasi per darti forza. Eppure capisco che non si possono invocare rinascite senza il coraggio di totali rovesciamenti di fronte e non ci si può accontentare di piccoli, ormai inutili, restauri. Né si può vivere ancora di sogni. Bisogna saper alzare lo sguardo oltre i bassi profili di un orizzonte chiuso. Bisogna saper usare tutte le opportunità che si presentano, chiamando a raccolta tutte le forze per non perdersi nel caos e per non far girare a vuoto le ruote della vita!

Un giorno anche io e i nonni, come ben sai, salimmo, carichi di bagagli, su un treno che partiva verso il Nord. Erano gli anni ’60 e al sud c’era tanta crisi, mentre al nord era il periodo del “miracolo economico”, soprattutto “nel triangolo industriale”. E noi scegliemmo Genova, che ci ricordava, nell’ambiente fisico almeno, la nostra Calabria.
La piccola stazione era affollata, amici e parenti piangevano, mentre io, con la morte nel cuore, sembravo indifferente e aspettavo rassegnata la partenza del treno. Il distacco si era ormai consumato nel mio cuore, sapevo che era inutile lottare!

Ma, mentre il treno lentamente attraversava la mia terra, i ricordi si affollavano nella mia mente e ripensavo alle mie querce, ai miei ulivi, al silenzio rotto solo dal canto degli uccelli, dei grilli, delle cicale, ai miei campi, ai vigneti e immaginavo che presto le sterpaglie avrebbero sovrastato tutto e le serpi sarebbero rimaste incontrastate padrone di ogni palmo del mio “paradiso perduto”…

E poi ripensavo al mio mare, alle spiagge piatte e lunghe, affollate d’estate e deserte d’inverno, agli amici, al primo grande amore fiorito sulla spiaggia. Ho passato tutta la mia vita nel rimpianto e nel ricordo di luoghi e persone perdute, di cose che consideravo parte della mia esistenza, inondata da sentimenti di triste dolcezza, sentendo il calore del mio sole sulla pelle, il profumo del mio mare e gli odori della campagna, della zagara, del gelsomino, della terra dopo i primi acquazzoni, del mio vento, che porta gli odori della valle, che m’avvolge e sembra sussurrarmi la storia, la memoria e annullare le distanze…
Io ho dovuto, mio malgrado, fare l’emigrante per tutta la vita, diverse volte sono stata costretta a partire sciogliendo legami e ricominciando da zero in altri posti. Le mie radici si sono ormai seccate e restano piantate solo nella mia mente.

La mia gente è sempre vissuta in cerca di un treno, di una nave, di un aereo, per vincere la fame o per migliorare le proprie condizioni sociali e
culturali, spesso solo per cercare il proprio diritto alla dignità e alla vita. Gli emigranti partono con la speranza del loro ritorno e intanto si fissano
nelle menti i muri delle loro case, i profumi, i colori, e tutto è destinato a diventare più bello nella memoria disperata di chi misura il certo con l’incerto, il conosciuto con l’ignoto…

Non avrei mai pensato, però, che anche mio figlio avrebbe dovuto fare questa esperienza, a causa della terribile crisi che stiamo vivendo in Italia. E chissà se e quando finirà! Tu sei partito proprio perché disgustato e amareggiato dal nostro paese. Hai provato anche ad impegnarti, culturalmente, politicamente, socialmente e anche manualmente, ma hai avuto solo grandi delusioni. Ti sei stancato di lottare per niente, anche perché a 30 anni non si può più vivere con la "paghetta" di papà, nonostante tu, come molti altri ragazzi (per niente" schizzinosi"), abbia messo da parte cultura e titoli per cercare lavoro ovunque e comunque. Io spero che qualcosa succeda e che tu e tutti i nostri ragazzi possiate tornare nella nostra terra, per renderla anche più giusta e pulita! Ma ho sempre meno speranze! In Italia tutto ormai peggiora. Non si ha più la dignità di affrontare i problemi concreti e di guardare la realtà con serietà. Nessuno si accorge che il depauperamento dei giovani che emigrano corrisponde a un incolmabile depauperamento culturale, economico e, di conseguenza, politico per l’Italia tutta…
Ma non scoraggiamoci! La vita è, comunque, un’esperienza che forgia ogni persona. Ogni aspetto della vita ci insegna ad amare e a essere. Ma bisogna imparare a farlo (come stai facendo ora tu), perché l’amore è un processo che nasce nel profondo, ma si forma nel tempo, portandoci nel flusso che giace in ogni cuore, in ogni essere umano. Vi è, però, qualcosa che nasce nel flusso dell’amore. E’ un figlio. Non vi sono percorsi da seguire. E’ da subito esperienza d’amore. Basta che incrociamo il suo primo sguardo ed egli raggiunge il centro del cuore. Sì, di questo sono convinta, perché l’ho sentito dal primo istante in cui i miei occhi sono penetrati nei tuoi. Vi era da subito amore. E niente e nessuno che dovesse insegnarmi a costruirlo, quell’amore. E l'amore é il modo più bello per percorrere un cammino, che in qualche modo dovremmo compiere senza mai arrenderci, anche se siamo sfiduciati e nella testa abbiamo un caos pazzesco. L'amore ci rende la strada un po' meno ripida e ci disseta la gola e l'anima.
Tu provaci, figlio mio! E continua a camminare per la tua strada!
Noi ci saremo sempre.
La tua mamma

NEL TURBINE DELLA VITA (a mio figlio, emigrato in Inghilterra per lavoro)

Nella tua stanza vuota non sento che
il rumore dei miei passi e l’ombra
del silenzio. Ma la memoria raccoglie
frammenti d ‘emozioni, che fluiscono
lente nell’oscurità del silenzio: il tuo
sorriso tenero ed aperto, il suono
d’un violino, la voce d’un soprano,
le tue carezze intense, tracimanti.
“Ciao, mamma!”, mi dicesti soltanto,
quasi con noncuranza. E… volasti via,
la testa colma di abbozzi di pensieri.
Forse ti sei smarrito frugando nell'io
e ora cerchi certezze in altre terre,
dove puoi liberare sogni nel vento,
lontano dal nostro mondo, ormai
consunto dal turbine della corruzione
e dell’indifferenza.
Cerchi certezze? O forse solo illusioni?
Forse lumini brancolanti, esili ponti
sospesi sopra stremati stagni?
Forse aquiloni ancor legati al filo?
E intanto lastrichi muri e sentieri di sogni
di gratuita speranza, scuotendo nell’aria,
rassegnato, ali di mancanze increspate.
Ebbro di sogni e di febbrile attesa, tu
cerchi lì solo… una vita vera!
Qui è guerra ormai, guerra senza armi.
Guerra senza esercito e bandiera.
Guerra in cui ognuno è solo nella lotta.
Solo a combattere per il suo destino,
in questa notte nera, priva d’amore.
Ardua è la forza del ricominciare
con fiaccole ardenti di nuovo coraggio.
Si deve solo andare! Là dove si può
ancora sperare…
Io, che credevo d’aver capito tutto,
m’accorgo ora d’essere nuda e vuota,
mentre penso ai tuoi occhi gonfi e alla
vita che ti salta contro.
E una domanda sgorga, misteriosa:
“Questa è la vita? Questo egoismo
eterno, senza fine?E questo tempo
deserto di speranze?”
Si smarrisce dentro transiti ignoti la mia
anima. Si fa pallida attesa del soffio
luminoso d’una voce che dica con
la stessa noncuranza:
“Son qui, da te. Sono tornato, mamma!”

Tendo la mano e cerco la parola amore.
Rimane chiuso il pugno. Senza luce
i pensieri. Schiacciate tra le dita, solo
briciole di foglie, strette da un cerchio
di dolci ricordi: un bambino posava
nell’acqua una barca a quadretti,
piccina, di carta…
Una barca sommersa dal naufragio
di un’Italia ormai povera di dignità
e d’orgoglio.

Emilia Fragomeni





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