Per ricordare in modo completo Giovanni Pascoli nel centenario della morte,
appare doveroso soffermarsi anche sulla sua straordinaria produzione in lingua
latina.
Questa ha potuto essere realizzata grazie alla
grande familiarità che il poeta aveva con la lingua degli antichi Romani fin
dagli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, dovuta soprattutto al fatto che
egli appartenesse all’ultima generazione di italiani che avevano appreso le
lingue classiche con il metodo natura, derivato direttamente dalla tradizione
umanistica, rielaborata ed arricchita dall’esperienza didattica dei Gesuiti,
che avevano poi fornito modelli educativi anche agli altri ordini religiosi
dediti alla formazione culturale dei giovani, come appunto gli Scolopi, presso
cui il Pascoli aveva studiato. Nel giro di pochi decenni, però, entrerà in uso
in Italia la prassi, ripresa dal mondo tedesco, di insegnare le lingue
classiche con il metodo grammaticale-traduttivo, i cui risultati, come si può
ormai constatare con la sicurezza della prospettiva storica, sono modestissimi,
tanto che la recente Riforma Gelmini è tornata a consigliare il metodo natura,
che appunto, nei licei in cui è attualmente applicato dà ottimi risultati.
Il Pascoli, quindi, anche per queste ragioni
dovute alla sua formazione culturale, può considerarsi l’ultimo degli Umanisti,
ma un umanista in cui la salda conoscenza delle lingue classiche trova terreno
fertile nell’animo di un poeta sensibile e fantasioso, determinando un
reciproco e proficuo scambio creativo tra formazione culturale ed ispirazione
personale.
La conoscenza del latino era così sicura per
Pascoli che possiamo considerarlo bilingue. Egli infatti usava il latino nei
suoi appunti, nelle bozze dei testi che aveva intenzione di scrivere,
alternandolo all’italiano, secondo il criterio di scegliere di volta in volta
la forma linguistica più efficace.
Il fatto, però, che sia stato un poeta ugualmente
grande in due lingue (qualunque esse siano) rappresenta un caso abbastanza
raro, anche se questo suo bilinguismo lo inserisce nella più tipica tradizione
della letteratura scritta in Italia che è stata per lungo tempo bilingue
(italiano/latino): basta pensare a Dante, Petrarca, Boccaccio, agli Umanisti,
alcuni dei quali, appartenenti come Angelo Poliziano alla cerchia del
Neoplatonismo fiorentino, hanno usato anche il greco, fino ad Ariosto ed oltre.
Con le sue poesie in latino Pascoli vinse
per ben tredici volte il Certamen Hoeufftianum,
un prestigioso concorso di poesia latina che annualmente si teneva ad Amsterdam. La produzione latina accompagnò il
poeta per tutta la sua vita fino a Thallusa, poemetto della cui vittoria seppe
solo sul letto di morte. In particolare, il 1892 fu
insieme l'anno della sua prima premiazione con il poemetto Veianus e
quello della stesura definitiva di Myricae.
Anche se il Pascoli in quegli anni non era
l'unico a cimentarsi nella poesia latina, infatti Giuseppe
Giacoletti, suo insegnante dagli Scolopi, vinse l'edizione del Certamen del 1863 con
un poemetto sulle locomotive a vapore, egli lo fece in maniera nuova e con
risultati, poetici e linguistici, sorprendenti. L'attenzione verso questi
componimenti si accese con la raccolta in due volumi curata da Ermenegildo Pistelli nel 1914,
col saggio di Adolfo
Gandiglio nell'edizione del 1930. Successivamente vennero fatte
anche traduzioni in italiano di questi testi, curate da Manara Valgimigli ed Enzo Mandruzzato.
Ma i Carmina del
Pascoli non furono l’occupazione erudita di un umanista attardato o di uno
dei numerosi studiosi di provincia dell’Ottocento, né vollero mai essere prove
di carattere accademico o ampliamento artificioso dei suoi sentimenti e dei
suoi mezzi espressivi. Furono, al contrario, un’esigenza delle sue energie
interiori ed il soddisfacimento del bisogno di sentire vivo, un mondo remoto e
venerato, di cui il poeta si credeva ancora parte.
Anche da quel mondo, come dal suo mondo
presente e quotidiano, egli sentiva arrivare echi di voci e di pianti, e si
rammaricava che non avessero trovato le loro parole poetiche. Dare corpo a
quegli echi e suono alle voci di vittime, di schiavi, di bimbi, di anime di un
universo perduto fu l’intenzione emotiva e sentimentale, ma anche etica del
Pascoli poeta in latino: la stessa intenzione con cui egli ascoltava le voci
del mondo che gli era intorno. Queste opere, quindi, ci fa nascono dal
nucleo più autentico dell’ispirazione pascoliana e trovano nell’uso della
lingua latina una loro intima ed intrinseca ragione espressiva.
Infatti l’uso del latino è perfettamente
coerente con la poetica del Pascoli, che ha due aspetti fondamentali: la
memoria e le cose. Gran parte della sua poesia nasce dalle memorie, dolci
e tristi, della sua infanzia: "Ditelo voi
[…], se la poesia non è solo in ciò che fu e in ciò che sarà, in ciò che è
morto e in ciò che è sogno! E dite voi, se il sogno più bello non è sempre
quello in cui rivive ciò che è morto". Pascoli dunque intende fare
rivivere ciò che è morto, attingendo non solo al proprio ricordo personale,
bensì travalicando la propria esperienza e descrivendo personaggi del mondo
antico: infanzia e mondo antico sono, a suo giudizio, le età nelle quali l'uomo
vive o è vissuto più vicino ad una sorta di stato di natura. "Io sento nel
cuore dolori antichissimi, pure ancor pungenti. Dove e quando ho provato tanti
martiri? Sofferto tante ingiustizie? Da quanti secoli vive al dolore l'anima
mia? Ero io forse uno di quegli schiavi che giravano la macina al buio,
affamati, con la museruola?". Contro la morte - delle lingue, degli uomini
e delle epoche - il poeta si appella alla poesia: essa è la sola, la vera
vittoria umana contro la morte. "L'uomo alla morte deve disputare,
contrastare, ritogliere quanto può".
Che il ricordo sia poesia, e la poesia
non sia se non ricordo, è un assioma pascoliano. E’ il tema della rievocazione,
appreso da Roussseau, ma con la differenza che per il filosofo francese la
memoria si arresta ai perduti paradisi dell’infanzia, mentre per Pascoli li
travalica per far vivere tutta la vita passata dell’umanità. Questo in lui
avviene con una messa in crisi del positivismo e con un recupero
memoriale-identificativo con le esperienze degli uomini del passato, che sta
alla base di tutta la sua poesia storica ed in particolare di quella
latina. Lo dice esplicitamente nella più programmatica delle sue liriche
latine, la quinta asclepiadea di Silvula (Poematia et
Epigrammata): “Quando toccate dal mio pollice le corde della cetra latina
vibrano dolcemente, allora mi sembra di rivivere un’antica vita, allora ricordo
i secoli caduti nel greve silenzio, allora stupisco di vedere con occhi nuovi
cose già viste”. A far nascere la poesia latina del Pascoli è quindi
un’identificazione metapsichica con i dolenti protagonisti di quella vita
passata, esperienza che si colloca in quella zona di confine tra scienza e
irrazionalismo, che, sotto il segno di magnetismo, ipnotismo e spiritismo, mise
in crisi il razionalismo di fine Ottocento. Per questo il rapporto con i suoi
personaggi è così intenso che il poeta sembra quasi recuperare una memoria
prenatale, con identificazione in alcuni di loro.
Ma a motivare l’uso del latino interviene
anche l'altra e complementare componente della poetica pascoliana: la poetica
delle cose, come ben evidenziò Renato Serra, sottolineando che si tratta
di quelle cose che solo il fanciullino sa vedere. "Vedere e udire: altro
non deve il poeta. Il poeta è l'arpa che un soffio anima, è la lastra che un
raggio dipinge. La poesia è nelle cose". Ma questa aderenza alle memorie e
alle cose ha una conseguenza linguistica di estrema importanza, in quanto ogni
ricordo ed ogni cosa devono parlare quanto più possibile con la propria voce:
gli esseri della natura con l'onomatopea, i contadini col vernacolo, gli
emigranti con l'italo-americano, Re Enzio col bolognese del Duecento; i Romani,
naturalmente, parleranno in latino. Dunque il bilinguismo di Pascoli in realtà
è solo una faccia del suo plurilinguismo.
Per questo i carmi in latino
sono tutti e solo di argomento romano (a differenza di chi usava questa lingua
per temi e situazioni moderne), il che crea una condizione di totale
naturalezza.
Ma Pascoli reinventa
il latino, lo plasma, piega la lingua, affinché possa esprimere una sensibilità
moderna, perché possa essere una lingua contemporanea. Se oggi noi parlassimo
ancora latino, forse parleremmo il latino di Pascoli, come acutamente ha
osservato Alfonso Traina[1].
Per entrare più nel dettaglio, possiamo dire
che in latino Pascoli ha prodotto 30 componimenti, in genere raggruppati in
diverse raccolte, secondo l'edizione del Gandiglio (1930), e 71 liriche o
epigrammi, nel corso di 40 anni. Successivamente all’edizione del Gandiglio
sono stati rinvenuti altri testi, alcuni dubbi. L’articolazione è in sei cicli
tematici: Poemata Christiana, Liber de Poetis, Res
Romanae, Ruralia, Poematia et Epigrammata, Odi et Hymni.
Il poeta avrebbe voluto pubblicarli complessivamente con il titolo di Roma e
dice espressamente che essi “Descrivono la vita romana antica in tutti i tempi,
in tutte le condizioni, in pace e in guerra, in terra e in mare, nella politica
e nella domesticità, in città e in campagna; poeti, artigiani, grandi uomini e
donne, e piccoli e piccole, e paganesimo e cristianesimo, le origini e la
fine”.
Due sembrano
essere le aree tematiche favorite del poeta: Orazio, poeta
della mediocritas, che Pascoli sentiva come suo alterego,
e le madri orbate, cioè private del loro figlio (Thallusa, Pomponia
Graecina, Rufius Crispinus). In quest'ultimo caso il poeta pare
ribaltare la sua esperienza personale di orfano, privando invece le madri del
loro ocellus ("occhietto", come Thallusa chiama il
suo bambino). Ma sono i Poemata Christiana da considerarsi il
capolavoro in questo ambito. In essi Pascoli traccia attraverso i vari
poemetti, tutti in esametri, la storia del Cristianesimo in Occidente, dal ritorno a Roma del centurione che assistette alla morte di Cristo sul Golgota (Centurio), alla penetrazione
della nuova fede nella società romana, dapprima attraverso gli schiavi (Thallusa), poi anche tramite
la nobiltà romana (Pomponia Graecina), fino al tramonto del paganesimo (Fanum Apollinis).
Possiamo anche chiederci che cosa ci sia di cristiano in questi componimenti.
Delle tre virtù teologali il Pascoli accetta quasi esclusivamente l’amore.
All’ossessione pascoliana della morte è mancata la fiducia nella promessa
cristiana dell’immortalità, a cui pure avrebbe voluto credere, in chiave
consolatoria, neppure confortata dalla sopravvivenza biologica nei figli, la
mancanza dei quali molto amareggiò il poeta.
Pascoli, infatti, non ha ripetuto temi
antichi e, viceversa, non ha trasferito nella lingua dei padri casi
autobiografici o vicende e figure contemporanee, né ha inteso rendere moderne
le attitudini del latino, ma lo ha ‘costretto’, vorremmo dire, ad appropriarsi
di immagini, fantasie, sofferenze, casi di vita e creature viventi che esso
aveva ignorato. Dunque, nella lingua che aveva assegnato a se stessa un destino
universale, una lingua di fatti eroici, di pensieri solenni, di figure forti, e
che fu anche tale da dar forme solide e decise agli stati d’animo dell’amore,
dell’ira e della beffa, il poeta, anche mettendo in scena personaggi celebri e
momenti della storia, ha diretto la luce della poesia su comprimari modesti e
oscuri, su coloro che negli scritti dei grandi hanno avuto solo un
nome, e ha donato loro un carattere e un destino. In questa sua ‘nuova’
poesia latina
Pascoli ha accolto momenti sconosciuti, parole dimesse, gesti cordiali di
quei grandi poeti che egli amava, per sottrarre alla celebrazione il
significato autentico della loro vita e far vivere a noi insieme a loro
un’esistenza lontana dalla luce della fama. Ecco, tutto ciò che non era
destinato alla storia o che non ne era degno, ciò che per Pascoli era
semplicemente ‘la realtà’ umana, degli spiriti massimi e delle anime oscure, è
diventato contenuto sentimentale e morale dei versi in latino del nostro poeta.
[1] Saggio sul latino del Pascoli, Padova
1961 e in una nuova edizione riveduta e corretta Il latino del Pascoli –
Saggio sul bilinguismo poetico, Firenze 1971.
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