mercoledì 11 settembre 2013

“Effekappa” di Franz Krauspenhaar - Recensione di Teresa Caligiure


La raccolta poetica “Effekappa” di Franz Krauspenhaar ha inizio con una dichiarazione di immodestia, perché bisogna essere immodesti per confrontarsi, anche solo mediante le iniziali, con un grande autore come Kafka. Eppure le situazioni estreme e surreali presenti nel libro, dettate da contesti esistenziali, autobiografici e poetici, ben si inseriscono nell’orizzonte kafkiano.

FK come Franz Krauspenhaar comincia a pubblicare poesie nel 2005, esordendo a quarantacinque anni con l’ebook “Champagne (poesie 1981-2005)”, a cui seguono “Monoscopio segreto” nel 2007, “Cocktail K” nel 2008 e, per i tipi Manifattura Torino Poesia, “Franzwolf (un’autobiografia in versi)” nel 2009; di recente per Marco Saya Edizioni è uscita la preziosa silloge “Biscotti selvaggi” (2012). L’autore approfondisce in versi tematiche già presenti nei suoi romanzi, traendo ispirazione dalla lettura di un’antologia poetica di Mark Strand. I componimenti di Krauspenhaar, come quelli di Strand, sono inizialmente narrativi, per poi assumere una direzione più lirica e comprendere diverse soluzioni stilistiche. Se la narrativa caratterizza il linguaggio dell’autore, la poesia gli apre nuove possibilità comunicative, per cui dalle tematiche strettamente autobiografiche il poeta via via si allontana, per affidare ai suoi versi un messaggio più vasto e universale.


Le situazioni emotivo-esistenziali presenti nei testi riproducono tensioni interiori, il contrastato rapporto col padre, la tragica perdita del fratello, ma anche riflessioni sulla letteratura, amori vagheggiati o vissuti, dai toni più diversi, e riferimenti all’attuale situazione politica italiana. Le liriche hanno come sfondo interni e paesaggi urbani: Milano e l’Europa centrale, svizzera e tedesca, sono i luoghi prediletti dall’autore, ma si tratta di spazi che rappresentano il grigiore e la normalità quotidiana, piuttosto che paesaggi geograficamente definiti. Nell’universo poetico di Krauspenhaar i vivi fanno i conti con i morti nell’inferno della vita; il poeta affronta il dolore nella sua nudità, senza essere mai freddo e distante, tuttavia le immagini e i toni, anche quelli più disperati, non di- ventano mai lamento.

L’autore affronta la morte, la solitudine, l’alienazione dell’uomo e la sofferenza, affidando il suo esserci alla parola, non tanto per liberarsi dai mali e dalla rabbia, quanto per affrontare il tempo rimasto: “così io il tempo lo penso d’asfalto, / grigio, scorrente sotto ogni ciglio/ maledetto e perdente”.


Le immagini si presentano quasi a ritmi ossessivi, quali simboli di paure, di rimorsi e di pericoli improvvisi. La realtà non presenta nulla a cui aggrapparsi, di conseguenza i testi prediligono figurazioni ossimoriche, che cozzano con ogni desiderio di certezza, ma nella scrittura la speranza non cessa mai di esistere e alimentare se stessa, diventando ragione di vita. Anche quando il poeta narra, come nel poemetto “H24”, tratta di stati d’animo, di sentimenti, di processi psicologici, all’interno di situazioni esistenziali di chi sa che nulla è certo, ma vale sempre la pena di continuare. Non esistono favole o trasfigurazioni mitiche: il labirinto, al pari del gioco del calcio o del cane aggressivo, diventa metafora estrema del caos e della difficoltà di vivere. 


I giochi linguistici, mai fini a se stessi, sono presenti anche nei componimenti più tragici; le immagini si susseguono in asindeti e polisindeti con ritmi veloci che coinvolgono il lettore, per cui anche le metafore e le similitudini più azzardate diventano consuete. Il lessico è caratterizzato dall’accostamento di termini aulici, citazioni letterarie, espressioni del repertorio quotidiano e familiare. L’impianto stilistico e sintattico, denso di ripetizioni, rime interne, poliptoti e anafore, insieme all’incastrarsi organico di immagini e situazioni che paiono assurde e a tratti grottesche, in realtà è dettato dall’inconoscibilità e indomabilità della vita, che l’autore vuole raccontare con le armi della poesia.

*Testo parzialmente rivisitato tratto dalla Postfazione di Teresa Caligiure al volume di Franz Krauspenhaar, “Effekappa”, Milano, Zona, 2011.


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