Il romanzo è la storia di una bellissima donna molto passionale, autentica e fiera che vive sullo sfondo della città di Parma, dove il torrente separa simbolicamene i poveri dai ricchi. La protagonista Irene Corsini, la Califfa, è di origine popolare ma diventa l’amante di Annibale Doberdò, l’industriale più potente della città che, nella sua autorevolezza e spregiudicatezza, si innamora della ragazza, rivedendo in lei probabilmente la sua stessa giovinezza e il suo essere libero da vincoli clientelistici e immorali. Questa donna diventa per lui un’amante assolutamente priva di qualsiasi atteggiamento servile, schietta e assolutamente innocente, tanto da indirizzarlo verso un nuovo modo di vedere la vita. Contro di lei tutto il mondo dei cortigiani dell’industriale, la cui morte improvvisa porrà fine alla vicenda. La Califfa tornata nel suo quartiere si troverà sola ma armata di una nuova coscienza, fiera di aver compiuto ciò che era nelle sue forze per contribuire al cambiamento di uno stato sociale, oltre che di un uomo. Un romanzo che racconta in modo realistico la verità sugli anni ’60, tra splendori e miserie all’interno del miracolo economico italiano, la cui notorietà è arrivata in particolar modo con la realizzazione dell’omonimo film, girato dallo stesso autore, con interpreti d’eccezione quali Romj Scheneider e Ugo Tognazzi.
La rilettura critica del romanzo, così come di buona parte dell’opera dell’autore, mette certo in evidenza – come sempre succede – le possibilità di influenza, di relzione, di riflessi inrelazione a grandi autori del passato, che facendo parte della nostra stessa storia della letteratira, non difficilmente arrivano ad essere ritrovati nellìopera dei contemporanei.
Infatti, non sembri così strano o azzardato il paragone proposto tra le due figure di Lucia Mondella (protagonista de I promessi sposi manzoniani) e la Califfa, Irene Corsini. Alla luce di un’attenta lettura del romanzo, credo di poter rilevare che molti sono gli spunti e i riferimenti manzoniani riscontrati, specie nella protaginista.
Ma cosa può avere a che fare, cosa può avere in comune una slandra - termine emiliano per definire una sgualdrina - con la pura e soave Lucia? A ben guardare molto, soprattutto se pensiamo ai rispettivi caratteri, alla forza d’animo che le due protagoniste tirano spesso fuori con sè stesse e con gli altri, alla loro capacità di farsi portatrici di valori ed eroine di battaglie anche sociali, di trasformare l’animo di personaggi considerati impenetrabili, irraggiungibili, inattaccabili da alcunché di positivo, alla loro determinazione nel non cedere mai di fronte alla realtà.
Lucia ed Irene sono sempre al centro di forti contrasti interiori e di turbamenti profondi, e così come dietro i rossori, i tremori, i pianti ed i singhiozzi che caratterizzano Lucia pressoché in ogni circostanza, si cela una vitalità straordinaria, la stessa vitalità troviamo nella Califfa, certo a volte mostrata spavaldamente - magari, camminando per le vie del centro e sbattendo i tacchi sul marciapiede - ma altrettanto spesso celata, ricacciata in gola come il pianto nascosto sulla spalla della Viola, o nella mano che accarezza la lapide del figlio Attilio, o nel corpo che sfiora le tendine del suo appartamento di città.
Così come ne I promessi sposi, Lucia è il cuore che batte più forte (che in certi momenti si sente solo battere il suo cuore), ed ella è tanto viva che agisce su tutti quelli che l’avvicinano, tanto da rappresentare la coscienza più retta, più delicata, che tiene forse in mano tutto il romanzo… così è il cuore di Irene che scandisce il romanzo La Califfa quando pulsa d’amore, di sofferenza, di solitudine come le prime notti in quella nuova casa, dove vive da slandra per il Doberdò, che il battito del suo cuore vibra all’unisono col suono della cornetta del telefono, poggiata sul letto, nel buio della notte, per sentirsi vicina al mondo esterno che la circonda; ed è lei che agisce su tutti quelli che l’avvicinano non solo per l’attrazione che provoca la sua bellezza esteriore, ma perché ha qualcosa dentro come uno slancio, una vibrazione che si raccoglie verso la vita, un eros innato che combatte in quell’eterna lotta con la morte; è lei la coscienza a dispetto di tutti, quella che ritroverà il Doberdò, ripensando alle proprie origini, ai propri ideali e lotte, che gli farà desiderare di ritornare ad essere se stesso… (Non fu forse Lucia, benché misera ed indifesa, ad esporre l’Innominato ad una serie di moti interiori - segno dello stato di crisi latente del personaggio - e a dargli la possibilità di redimersi, di ritornare alle origini?).
Certo l’energia che Lucia libera per far fronte alle avversità ed ai drammi strettamente personali, è collegata soprattutto alla fede, attraverso cui riesce a discernere quali siano le circostanze reali che bisogna accettare coraggiosamente, e quali siano gli aspetti della realtà sui quali intervenire attivamente, con un atteggiamento di esplicita rivolta… ma a Irene non manca la fede, a modo suo, con un moto suo proprio ella crede nella Provvidenza, ella spera - mai cessa di farlo, e la speranza non è pur fede? - che qualcosa succeda, che qualcuno l’aiuti a superare la morte del figlio, a ridare a Guido forza di ritrovarsi, a cambiare la sua condizione di slandra - nascosta agli occhi del mondo - in quella di figura che sorride e incede al braccio di Doberdò salutata da tutti…
Penso si possa dire che le due figure assumono in ogni momento di fragilità ancora maggiori forze interiori, che le rafforzano anche nei rispettivi profili esteriori, attribuendogli verità e realistica presenza, possibilità di riconoscere in loro figure vive, visibili: così Lucia per la sua caratterizzazione culturale, sociale, economica ed in prima analisi anche morale, si innesta senza attrito nel contesto della civiltà campagnola seicentesca; così Irene, allo stesso modo assurge a figura di crinale nel contesto della condizione femminile, anticipando di poco le lotte per l’emancipazione, sullo sfondo del mondo rurale che si trasforma in modo operaio e che inizierà a sua volta le lotte per le rivendicazioni di classe.
Ma ancora, entrambe sono icone ideali, di istanze etiche e morali interiori fortissime, se pur contestualizzate nel relativo periodo storico e sotto l’impulso dei moti propri, religiosi o laici che siano, dei rispettivi autori: Lucia è un personaggio ideale, nel momento in cui diviene il personaggio del “dover essere”, figura che coincide perfettamente con quella risultante dal “progetto uomo” elaborato dal concilio di Trento, che Manzoni trasla su un profilo femminile, dando vita all’ideale cattolico di sposa cristiana, donna che, alla fine del percorso accidentato che ha dovuto compiere per ricongiungersi al suo uomo, dice comunque che anche i guai «la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore». Irene è un personaggio ideale, nel momento in cui, dopo aver perso tutto – o quasi - con la morte di Doberdò, tornata dalla Viola cerca con lei ancora quella speranza che l’aveva animata e, tornandole alla mente le parole di lui “l’importante è essere vivi!” capisce che “c’era una verità – al di fuori di lei e della Viola – che esigeva che loro fossero testimoni di quella miseria che le circondava.. ( )… La verità di essere presenti… ( ) perché il mondo possa cambiare, emergere dai suoi errori…” e capisce quella sera che il suo e quello della Viola “… era un unico attendere rivelazioni assai più grandi di quelle che avrebbero potuto offrirsi ai loro sentimenti di donne sole.”
Bologna 18 settembre 2013
Alberto Bevilacqua nasce a Parma nel 1934, muore il 9 settembre 2013. Nei primi anni Cinquanta inizia a pubblicare i suoi scritti sul supplemento letterario della «Gazzetta di Parma». Nel 1961 pubblica il libro di poesie L'amicizia perduta. Con il romanzo La califfa (1964) conosce il primo successo di pubblico, confermato anche dal successivo Questa specie d'amore, vincitore nel 1966 del premio Campiello. Di entrambi i romanzi lo stesso Bevilacqua cura la versione cinematografica, vincendo, con il secondo, il David di Donatello come miglior film. Il suo primo romanzo La polvere sull’erba (1955), apprezzato da Sciascia, ma non pubblicato all’epoca nel timore che provocasse uno scandalo, è riedito nel 2000. Lo scrittore è mancato il 9 settembre 2013.
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