venerdì 18 ottobre 2013

Infezione di Sunshine Faggio - Recensione di Lorenzo Spurio



Infezione
di Sunshine Faggio
prefazione di Luciano Recchiuti
Arpeggio Libero Edizioni, 2012
ISBN: 9788897242246
Pagine: 104

Costo: 12 €

Dall’altezza della tua perfezione
non è facile capire me
che agonizzo
nel mio guscio d’inadeguatezza.
(Da “Guscio d’inadeguatezza”, p. 49)


Le poesie di Sunshine Faggio, toscana emigrata a Londra, funzionano come un pugno allo stomaco per la loro carica di energia e il loro linguaggio violento, crudo, e a tratti anche ossessivo. O forse si dovrebbe dire che funzionano come una pugnalata alle spalle, perché producono sì violenza e vanno dritte al sodo, sviscerando formalismi o qualsivoglia orpelli della poesia “barocca”, ma arrivano improvvise e certi versi “dolorosi” e spietati arrivano proprio mentre meno ce l’aspettiamo.

La poetessa è una narratrice del disagio, del senso d’in-appartenenza al mondo, della scissione continua del suo io e un’anima alla continua ricerca di sensi, significati ed emozioni. E’ in questo percorso cupo e a tratti angosciante in cui il vitalismo sembra essere il peggior nemico che Sunshine Faggio ci parla di violenze, rapporti sessuali feroci, sadomasochismo e ipotesi di suicidio (“Dall’alto/ ho guardato le rotaie,/ erano accoglienti,/ invitanti”, in “Contemplazione”, p. 15). C’è, infatti, una lirica dedicata alla grande Sylvia Plath, celebre scrittrice americana che si diede la morte all’età di trentatré anni.

Il titolo, incisivo quel tanto che basta ad incuriosire il lettore a sfogliare questo libro, è la summa dei contenuti delle varie liriche che ci mostrano un mondo caduto nei suoi stessi recessi, quasi allucinato e degradato non tanto a causa dei drammi della società (non si parla di povertà, di violenza sociale), ma in quanto il singolo è portato a prendere narcisisticamente e quasi in maniera nolente decisioni su comportamenti discutibili e per se stesso traumatici.
E’ una poesia intimistica e non intima, personale, e sofferta che fa utilizzo di un linguaggio urlato per dar voce a sevizie e inganni del presente. Non sono, però, urla in cerca di un aiuto, né tentativi di appello; sembrano essere, invece, grida di liberazione, di scaricamento delle troppe energie accumulate, come un doloroso rito di passaggio.
Chi urla lo fa o per intimare al pericolo, o per richiamare l’attenzione.


Ci sono, però, anche persone che come la Faggio, urlano per se stesse. Per riaffermare al presente di “esserci” e di ristabilire un rapporto con il tutto.
E se il prefatore , Luciano Recchiuti, parla di dark side per riferirsi a questa componente carnale e morbosa presente nella poetica della Faggio, a me piace poter parlare di deviant art: la poetessa si spinge ai margini dei limiti, sfiora l’abisso, conosce l’oltre, ma alla fine decide sempre di rinunciare a quel passo estremo verso l’altro (mondo), perché forse, anche se non si penserebbe, un briciolo di vitalismo è presente in lei.


Dalle liriche fuoriesce violenta un’esasperata lotta tra Eros e Thanatos, la convinzione che il male (inteso in senso esteso) sia ormai componente inscindibile dall’uomo, ancor più del suo contrario, come osserva nella lirica che apre la raccolta: “L’essere umano/ ha bisogno/ di farsi del male” (p. 11). Ma perché il bisogno del dolore e della violenza, dei soprusi e degli odi? Forse perché è la componente animalesca ed egoistica dell’essere umano che padroneggia sulle nostre sfere emotive, sui nostri comportamenti e, come nel più cupo pessimismo, anche nell’azione più bella, spensierata o goliardica, c’è immancabilmente qualcosa che tende all’infelice, all’inumano, al viziato.


Per citare Pavese, “le parole sono pietre”, ma nel caso della Faggio bisognerebbe dire “le parole sono lame” e molto acuminate, anche. L’intera silloge è sostenuta da sprazzi di inaudita violenza (non solo dei comportamenti umani, ma anche delle manifestazioni atmosferiche) quasi che ogni cosa, vista dagli occhi della poetessa, debba per forza accadere nella sua forma iperbolica, smisurata, violenta ed esasperata; ed è per questo, forse che il sole è “bruciante” (p. 13), la speranza non è altro che un “massacro” (p.13), le immagini sono “distorte” (p. 13) cioè allungate, deformate, perché è la realtà ad essere allucinata, e ancora scrive di “lemmi lancinanti” (p. 17), “sinestesie del non ritorno” (p. 17) e di “roventi stelle” (p. 65)
Immagini di violenza subita, di percosse date e, immaginiamo, di liti tumultuose nelle quali le mani fanno seguito alle parole urlate sono presenti in vari versi: “Aborro/ quest’ombra scura/ insediatasi sul mio viso,/ le macchie sanguigne/ che non danno tregua” (in “Anima ed anima solo”, p. 41), “spina dorsale frantumata” (in “Colonna rotta”, p. 45), i “lividi neri sul collo” (in “Messa di Natale”, p. 61).


Linguaggio incisivo, acuminato, che si dispiega sul foglio come spastici fendenti, come mosse inconsulte dettate da irragionevolezza, istinto brutale e forse anche un po’ di vigore giovanile.
Ed è sicuramente la sfera semantica che fa riferimento al mondo del sesso che la Faggio utilizza spesso nei modi più vari per intendere materialmente quello che la parola, anche scurrile, suggerisce, ma per evocare significati anche più estesi che concernono il bisogno dell’io poeta di rapportarsi al mondo: “Mi sono svuotata/ affinché il mondo/ possa riempirmi,/ inseminarmi dei suoi colori” (in “Lisbon Story”, p. 27).


L’atto sessuale si configura così come un senso di supremazia e onnipresenza che consente alla poetessa di illudersi di poter gestire tutto e allo stesso tempo di sapersi perdere nei sentimenti, quasi ad annullarsi: “Vorrei possederti per sempre./ Fino ad aver schifo di te.” (p. 29): in questa poesia l’atto sessuale apparentemente sembra privato di una qualsiasi connotazione erotica dell’amore, e questa intuizione viene poi riconfermata dal secondo verso in cui il troppo amore finisce per diventare noia, ribrezzo e fastidio. Pensieri che in un’altra lirica rivolta all’amato fanno dire alla poetessa con un linguaggio viscerale e quasi nauseante: “Ti voglio vomitare” (p. 31).


Ma è normale e direi non scontato che una poetessa giovane del nostro periodo storico utilizzi il tema del sesso nella sua poesia, sviscerando immagini anche forti delle quali non sente il bisogno di vergognarsene o di mitigarne la descrizione: in “Catarsi” si parla di un “incesto [che] non è mai stato così dolce” (p. 53) mentre in “Silent Room”, l’amplesso tra due amanti (che in un’altra lirica viene definito come “Apocalisse d’odori e gemiti”, p.57) ha luogo sotto gli occhi di tutti mettendo in luce, dunque, una qualche vena voyeuristica: “ e la folla attorno/ esaminandoci/ come fossimo nulla più/ di una performance” (p. 55), quasi ad intendere che l’atto del movimento meccanico e la gratuità delle immagini facciano delle due persone, degli attori di una scena da impersonare. In “Messa di Natale” la poetessa descrive un rapporto odioso, perché violento e traumatico nel quale lei si paragona a una “bambola malleabile” (p. 62), ma allo stesso tempo di questo rapporto distorto non può farne a meno e lo ama, lo desidera.


Ciò che pervade nella lirica è la convinzione che ci sia il bisogno di cambiare perché questa vita monotona e stancante che spesso fa i conti con un passato doloroso e sempre presente è invivibile. Le persone e i posti attuano su di noi un cambiamento e noi, giorno dopo giorno, siamo chi gli altri vogliono che siamo. C’è un pizzico di desolazione misto a un senso di sfruttamento che, amalgamati insieme, “regalano” all’uomo d’oggi l’insofferenza e l’inadeguatezza nel condurre la propria vita senza sentirsi malato, infetto, degradato, usurpato, battuto o sfidato:

Dopo che tutto è filtrato
in profondità,
bisogna avere ogni giorno di più
per tornare a percepire la realtà
con tanta forza (p. 83).


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