C’è una magnifica favola che da mezzo millennio continua a vivere la sua avventura etnica nel sud dell’Italia e soprattutto in terra di Calabria: è la favola dell’Arbëria . Se ancora non la conosci non perdere altro tempo.
Appartengono all’Arbëria le numerose comunità che, più di cinquecento anni fa, sorsero in Italia in seguito all’esodo di un popolo che dalla sua patria, l’Albania, fuggiva per non assoggettarsi alle prepotenza degli invasori Arabi.; un popolo dignitoso e amante della libertà che ha trapiantato e costruito sul suolo italiano tutto il suo mondo, continuando a difenderlo nei secoli dalle più svariate prepotenze.
Il suo avvento non fu tra i più felici, e gli albanesi, poveri e malvisti dagli indigeni, vissero di stenti, con tenacia, però, seppero dare un senso alla loro sofferta dipartita.
Il sentimento della nostalgia per la patria abbandonata ha giocato, fra di essi, un ruolo determinante, tanto da far vedere nei secoli, ricostruiti interi paesi sull’impronta dei paesi lasciati. Paesi dove si perpetua quotidianamente un Oriente lontano fatto di piccole cose importanti: la lingua, le tradizioni, la religione: uno scrigno di amore e di cultura difeso e custodito gelosamente.
Se entri in una comunità arbëreshe, ricordati di, non fare troppe domande, potresti destare l’innata diffidenza di chi è abituato a stare in guardia per difendersi o ritrovarti davanti ad un muro di orgoglio che ti farebbe rimbalzare troppo lontana dall’ Arbëria .
Entra, piuttosto in punta di piedi e con un sorriso e vedrai il “rude arbëresh sciogliersi nei gesti della più genuina spontaneità: ti ospiterà amabilmente, ti aprirà la sua casa, entrerà nella tua ,si racconterà e ti racconterà a cuore aperto anche i segreti più intimi della sua esistenza.
Ti parlerà di una storia antica che vive ancora e palpita nel suo cuore.
Ti parlerà del suo Dio che è il tuo stesso Dio, un Dio che merita i gesti e gli splendori della solennità del rito bizantino greco.
In un momento esaltante ti farà visitare orgoglioso la sua chiesa, il Regno di Dio sulla terra, un luogo solenne ma familiare perché scandisce i momenti più importanti della sua esistenza, dalla nascita alla morte.
Lo sentirai parlare una lingua incomprensibile mentre ti apparecchierà il desco dell’amicizia con cibi semplici e gustosi.
Assisterai al miracolo di una quotidianità fatta di piccole cose che hanno il sapore del passato e ti accorgerai di essere entrato in un mondo di favola che non ti meraviglia, ma ti affascina.
Ti attrae irresistibilmente con le sue fate, le bellissime fate dai vestiti scintillanti che, ogni anno, a Pasqua, come sirene incantatrici, danzano al ritmo di antiche, struggenti melodie facendoti dimenticare la vita frenetica che ti assale ogni giorno.
Domani, forse, in campagna, quelle stesse fate, continuando a cantare, si vestiranno di terra e si sporcheranno le mani; a casa si trasformeranno in materne massaie, con le amiche saranno leali compagne e, a lavoro, perchè no, abili donne in carriera, mai e poi mai, però, potranno dimenticare o trasgredire i canoni di una diversità che le inorgoglisce.
Fra gli arbëreshe, infatti, il presente è figlio affettuoso del suo passato, è consapevolezza delle proprie origini avventurose ed è voglia di continuare a far crescere i propri figli accanto al grande camino scoppiettante dei nonni che sa un po’ di fumo, dove, tutti insieme, si ritrovano a Natale per friggere le petulla, dove si impara a cantare i vjershë e dove si continua a parlare quella strana lingua incomprensibile.
Domani, la bella favola finirà, ma il suo finale sarà inconsueto perché vedrà un futuro proseguire il suo cammino attraverso altri secoli, tenendo stretta per mano la sua storia; sarà un futuro bambino con il cuore antico dove gli arbëreshe, ancora una volta non vissero tutti felici e contenti, ma: continuarono a lottare per difendere il il loro tesoro, non più dalla scimitarra del nemico saraceno, ma dal grande mostro della globalizzazione, le loro armi vincenti furono l’intelligenza e l’amore messe al servizio della tecnologia.
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