martedì 17 settembre 2013

Su Innesti di Paolo Fichera – Recensione di Alessandro Ramberti



Ho fra le mani la copia 35/100 del numero 15 dei QC (quaderni di cantarena, Genova, 2007, vcenturione@tin.it ) con prefazione di Francesco Marotta (“La parola non è che passaggio di senso.” – p. 9) e postfazione di Luigi Metropoli (“Il verso è un innesto su altri versi, è un lavoro che non viene da dio, ma dalla terra, dall’uomo con la sua fatica, dal suo errore. “ ; “Il lessico stride, al pari della sintassi, tutto stride come un grido che esala da un ingranaggio che va vanti da sé, da qualche componente meccanica che distorce l’interpretazione del reale, il nostro risiedere in esso.” – pp. 55 e 57).

Trovo questa raccolta di Paolo Fichera compatta, a volte con ritorni vichiani di immagini e parole, sofferta nella sintassi quanto cristallina nel lessico, a tratti dolorosa come una epigrafe eppure nostalgicamente vitale… certo si tratta di un modo di fare poesia, con brutali soluzioni di continuità e immagini sospese e magari ossessive, che non mi è sempre vicino, cioè vicino al mio personale modo di fruire e interagire con la poesia. Una difficoltà che noto anche nella mia lettura dei versi di Massimo Sannelli o Marco Giovenale, per fare un paio di nomi; una difficoltà che a volte mi allontana, appunto perché può velarsi di uno sperimentalismo tendenzialmente esoterico o intimisticamente criptico e frammentato, ma in cui trovo delle gemme affascinanti, come questi lacerti eviscerati da alcune poesie del Nostro:

«il cielo annaspa lo spazio / abitudine è anima, corso» (p. 25)
«il, seme: un calco, il / viscere, la parola segno / sia funzione, piedi che muoiono» (p. 29)
«la rosa brunita e scrivi: la disperazione / è luogo. il canale è luogo, la bellezza è / disperazione, l’io è luogo, capelli ramati e / innesti sangue in struttura, s’infeconda la» (p. 30)
«il paese bagnato dall’acqua non moriva: / è questa la pena che s’arrende a moriva» (p. 35)
«nel coraggio si perde latra / il poeta: ha sete e digiuna / in corpi sono fiori / il padre muore nella poesia, amen» (p. 41)
«ogni peccato al rossetto una barba inci / de ora l’ocra il selvaggio maglio membro / pace sconfitta, la sbarra separa l’ombra / dal cielo luce è dolore, strazio Dio» (p. 49).


Una voce, quella di Fichera, atta a insinuarsi nel discorso piazzando le sue cariche di dinamite a basso potenziale nei punti strategici, nelle giunture in cui la sintassi dà spazio alle parole vuote (preposizioni, congiunzioni, morfemi inseparabili che vengono separati…), e così una poesia in fondo tellurica, con uno spasimo germinante e performativo che pare in cerca di un rivelazione, di una apocalissi, ma sa che non basta il volontarismo, nemmeno quello fecondo e condiviso, per ottenerla.


Innesti è una silloge necessaria, da leggere.



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