giovedì 1 agosto 2013

Uccialì e la notte dei cornuti - racconto di Ginetta Rotondo




Le barche dei pescatori erano tutte attraccate. La luna nuova di dicembre garantiva un buio pesto. 
Perfetto.
Niso Galeni fumava a bordo della sua Panda blu, parcheggiata vicino al pontile. 
Più in là, la fortezza di Le Castella spiccava nell’oscurità, illuminata dai fari arancioni. 
L’aria umida preannunciava pioggia. 
Perfetto.
Non c’era nessuno a quell’ora di notte nei pressi del porto. Un silenzio di tomba. Perfetto.
L’orologio segnava mezzanotte. Ancora un’ora. 
Avrebbe voluto dormire, ma non poteva. Doveva stare in guardia. 
Accese un’altra sigaretta e aprì una lattina di birra.
Il bip del messaggio sul telefonino lo fece sussultare. «Tutto bene. Tra un’ora siamo lì. Sono 45». 
Respirò profondamente. Digitò un numero: «A posto. Arrivano tra un’ora. Porta il camion, non il furgone. Sono 45».
«Bene. Ho già predisposto tutto».
«Magnifico. Prendi la via delle Serre».
Chiuse.
Le gazzelle della Polizia erano passate da poco. Avrebbero rifatto il giro verso le tre.
Perfetto.
Qualche goccia di pioggia cadde sul parabrezza. 
Aspettò. Ma le gocce si fermarono sui tergicristalli e, in attesa di compagnia, scomparvero.
D’un tratto il lampeggiare di una sirena nella sua direzione lo fece raggelare.
«E mo’ chi è?», pensò. 
Quando la sirena si fermò vicino al pontile, riconobbe la lambretta sgangherata di Peppino.
«Ma guarda ’sto scimunito! Che cazzo ci fa qui a quest’ora ?».
Esitò, ma quando lo vide prendere una sdraio dal cassone e sedersi sulla spiaggia, andò su tutte le furie e uscì dalla macchina.
Non appena Peppino lo vide gli andò incontro.
«Compare Niso, pure tu qui? Allora, lo sai anche tu? ».
«Che cosa?», chiese cereo Niso, disarmato dall’abbraccio affettuoso di Peppino.
«Non mi dire che non lo sai? E allora che ci fai qui, al porto a quest’ora?»
Preso in contropiede, Niso balbettò: «Be’, ero in giro, mi scappava la pipì e…».
«E sei venuto qui. Bravo compare! Hai fatto bene. Vicino al pontile si piscia che è una bellezza!».
Niso lo guardava allibito. E adesso? 
Sorridendo gli chiese: «Allora, compare Pepè, che ci fai qui con la sdraio?».
«Questa è la notte del grande ritorno», rispose candido Peppino, sgranando gli occhi in un’espressione di stupore.
Niso lo guardò più stupito ancora. 
Non riusciva a credere che proprio lo scemo del villaggio potesse rovinare quella notte perfetta. 
«Ma che dici? Il ritorno di chi?».
«Ma di Uccialì, no?».
«Uccialì? E chi è?».
Peppino lo guardò con piglio saputo: «Non lo sai? Ma come? Il nostro paesano che in Turchia diventò un grande condottiero nel Cinquecento. Possibile che proprio tu non lo conosci?».
«Come sarebbe ‘proprio io’?»
«Perché tu ti chiami come lui, Dionisio Galeni. Forse siete pure parenti, eh, eh».
Niso si grattò le tempie. Aveva una gran voglia di tirargli un pugno, ma si trattenne. Doveva assolutamente trovare un modo per mandarlo via. 
Intanto, Peppino si sedette sulla sdraio e accese una candela. 
«E mo’ che fai?», chiese Niso irritato.
«Aspetto. Stanotte tornerà Uccialì con i suoi fedeli Turchi e io lo accompagnerò dalla madre».
«Quale madre? Che cazzo dici, Peppì? La vuoi finire con queste baggianate? E spegni ’sta candela». Gliela strappò dalle mani e la spense. 
Peppino lo guardò stralunato: «Ma che ti prende, Ninì, perché t’incazzi? Uccialì stanotte tornerà dalla madre che lo perdonerà e ritirerà la maledizione».
«La maledizione?».
«Sì. La madre lo maledisse perché diventò musulmano»
«Ah, pensa tu! E la madre dov’è adesso?».
«Al cimitero. Io lo condurrò lì e tutto si compirà».
«Tutto cosa?».
«Tutto quello che si deve compiere. Lo dice la Pitia del Petilino che predice il passato, il presente e il futuro. Stanotte arriveranno i Turchi!».
Dionisio si prese la testa tra le mani. I Turchi dovevano arrivare davvero, di lì a poco. Ma non erano i seguaci di Uccialì. Erano Curdi, clandestini gestiti dalla ’ndrangheta. Manodopera a basso costo per le coltivazioni della Piana e della Puglia. 
E se questa Pitia fosse una spia, magari qualcuno che volava fregarlo e aveva mandato quell’allocco in avanscoperta…
«Chi è questa Pitia?».
«La magara di Petilia, quella che prima stava a Melissa».
«E tu che ci vai a fare dalla magara?».
Peppino abbassò lo sguardo: «Mi hanno detto che mia moglie mi cornifica. E così sono andato dalla magara».
«E che ti ha detto?».
«Uh, tante cose! A un certo punto ha invocato Dio, i diavoli, Epaminonda e Uccialì. Poi mi ha detto che lo spirito di Uccialì sarebbe venuto a salvarmi, a patto che io lo accompagnassi dalla madre. Per via della maledizione, capisci? Che porta male alla nostra terra e fa spuntare le corna agli uomini, perché quando gli lanciò l’anatema, lo chiamò ‘grandissimo cornuto’ ». 
Niso rimase muto. 
Ma guarda che storia s’era inventata quella ciarlatana e chissà quanti soldi aveva spillato al povero sciroccato di Peppino!
Non c’era più tempo. Doveva sbrigarsi. 
Corse alla macchina e prese la boccetta di un sedativo. Lo usava per addormentare i profughi, in caso di bisogno. Ne versò un bel po’ nella birra che gli era avanzata e la portò a Peppino.
«Tieni Pepè, bevi. Visto che devi stare qua con questo freddo, almeno ti riscaldi.».
Peppino lo guardò con la stessa riconoscenza del giorno in cui Niso lo aveva salvato dall’incendio all’Opera Sila. 
Già, allora se l’era vista proprio brutta, il poveretto. Convinto di essere il “generale di tutti i generali dei vigili del fuoco” – così lui si definiva – era arrivato nel luogo dell’incendio con la sua lambretta, a sirena spiegata. Voleva dare una mano, a modo suo, e ci stava rimettendo le penne. 
Niso Galeni spense il fuoco dalla sua giacca svuotandogli addosso un sacco pieno di sabbia e lo portò in braccio fino alla macchina dei soccorsi. 
Da allora Peppino lo guardò come si guarda un eroe. 

Una flebile luce si intravedeva nel buio del mare. Eccoli, erano loro. Doveva dare l’indicazione per l’attracco. Con la torcia che aveva in tasca cominciò a fare i segnali.
«Cos’è quella luce?», chiese Peppino sonnolento.
«Non vedi? È Uccialì, Peppì. Uccialì».
Peppino si aggrappò a Niso e prima di crollare disse: «Te l’avevo detto. Questa è la notte del riscatto», e cadde in un sonno profondo.
Niso lo sistemò sulla sedia e lo coprì col plaid. 
Anche se avesse detto qualcosa, nessuno gli avrebbe creduto.

I clandestini sbarcarono in silenzio. Vennero caricati sul camion che li avrebbe condotti nelle Serre. Da lì sarebbero stati smistati.
Niso pagò gli scafisti che, abbandonata la bagnarola, si dileguarono. 
Mise in moto la sua Panda e se ne andò. 

Alle prime luci dell’alba la Polizia avvistò la carretta arenata vicino al pontile.
Gli agenti di ronda trovarono Peppino addormentato sulla sdraio con accanto la lattina della birra.
«E che ci fa qui Peppino? A quest’ora?».
«Chissà se ha visto qualcosa? Avvisiamo la Centrale».
I poliziotti provarono a svegliarlo. Niente da fare, Peppino russava fragorosamente.
Quando rinvenne, trovandosi davanti il Commissario di Isola Capo Rizzuto, disse: «Marescià, li avete visti?».
«Chi, Peppì?».
«I Turchi ».
«I Turchi? Forse vuoi dire i Curdi?».
«No, no. I Turchi, guidati da Uccialì».
«Uccialì? Chi guidava lo scafo si chiama così?».
«No, Marescià. Uccialì, il musulmano. È tornato per la maledizione».
Il Commissario lo guardò sconcertato: «Intendi dire Dionisio Galeni, il condottiero?». 
«Sì, proprio lui. È venuto qui stanotte. Mi ha dato pure la birra. Poi io mi sono addormentato… non so, lui se n’è andato e non l’ho manco salutato. La maledizione, Marescià, le corna, le corna…», e scoppiò a piangere.
Testimone inattendibile.
Il Commissario si guardò intorno. C’erano solo un mucchio di impronte che dalla spiaggia arrivavano alla strada. Poi niente.
Erano riusciti a scappare e Uccialì li aveva protetti.
Avrebbe avviato le indagini. Come faceva sempre. 
A due agenti ordinò: «Accompagnatelo a casa e dite alla moglie di chiamare un medico. Uno psichiatra, possibilmente».
Il poliziotto che ispezionava la carretta lo chiamò: «Commissario, venga a vedere. Qui, sulle fiancate dell’imbarcazione, c’è un nome sbiadito, scritto in rosso: Uccialì».


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