Alessandro Rivali, La caduta di Bisanzio, collezione “I Poeti” n° 39, Jaca Book, Milano 2010, pp. 134, € 14,00
Quando nel 2005 la casa editrice Mimesis aveva pubblicato la raccolta poetica La riviera del sangue (ripubblicata du anni dopo da Fara Editore, accresciuta), molti erano rimasti colpiti dalla forza del suo giovane autore, allora ventottenne.
Avevano visto giusto. Da poche settimane Jaca Book ne ha edito la seconda raccolta nella prestigiosa collana “I Poeti” curata da Roberto Mussapi. Il quale, in quarta di copertina, scrive: «Alessandro Rivali, poco più che trentenne, è già un poeta inconfondibile, importante. Intatta da ogni cedimento minimalista, o sentimentale, coraggiosa e imprudente, la sua poesia visionaria e sontuosa si staglia con la forza divampante del fuoco eracliteo: le sue visioni di Bisanzio, delle civiltà che sorgono e vengono mutate dal tempo in polvere, la ruota del destino contro cui stoicamente l’uomo combatte provengono dalla poesia epica, bronzea, dai bagliori poundiani […]». Parole che paiono imprudenti, e invece sono la pura verità.
Alessandro Zaccuri, su “Avvenire”, parla di un «inconsueto esperimento di poema epico disseminato in frammenti». E l’autore, da lui intervistato, sintetizza: «un lungo viaggio attraverso il collasso delle civiltà». Le nove sezioni di cui il libro è costituito indagano, tra storia e mito, la fine di città-simbolo (Atlantide, Persepoli, Pompei, Bisanzio, Tenochtitlan …): «Passato e presente si penetravano/ seguendo il pendolo delle capitali» (p. 7); più ancora indagano «sulla frana crudele della ragione» (p. 14) degli uomini. Una storia di orrore e di sangue, che sembra eternamente ripetersi, una terra straziata che richiama la desolazione de La strada di Cormac McCarthy.
«Il cavallo rosso danzò sugli spalti/ con lenta e ossessiva cadenza:/ a ogni sussulto saliva il fumo/ di una generazione perduta» (p. 33). Un’apocalissi eternamente rinnovantesi («E sempre era deserto e rame/ e il prima non era passato» - p. 100), sebbene gesti minuti serbino la “pietas” e non venga meno la nostalgia del bene e del bello: «Ragionavano/ sulla geografia dell’oltrevita,/ come riavere la bellezza/ e gli occhi di un tempo» (p. 101).
Un epopea che percorre la storia con «scarti spazio-temporali che frantumano l’aristotelica unità di luogo-tempo-azione» (Alessandro Ramberti), nella consapevolezza che ogni vicenda di dolore è unica e irripetibile, ma al tempo stesso l’identità originaria dell’uomo rende tra loro simili i sofferenti.
Non si tratta del gusto dell’apocalittico: l’autore non accetta lo scacco assoluto, guidato com’è da una sicura teologia della storia, che intuisce un senso alla follia e al dolore, con tono visionario di profeta: «Sono rossi gli occhi dei mistici./ Metti la lingua nella loro brace/ muoverai le sorgenti dei secoli» (p. 8). Se «fuoco» e «vento» sono tra i termini più ricorrenti (quest’ultimo con particolare insistenza nella sezione Persepoli), lo è anche un termine archetipico come «drago», la cui simbologia è indiscutibile. Un’intera sezione è dedicata al grande mistico Giovanni della Croce, che si erge come un combattente: «Non i sogni prenderanno rilievo/ solo il firmamento dei fatti,/ l’orientamento del cardio.// Giovanni pregava in croce,/ disteso sulla pietra/ per arginare il drago» (p. 43).
Splendida e risolutiva l’ultima sezione, Atlantide, in cui lentamente si placa l’angoscia per la follia degli uomini, con una conclusione memorabile: «Al termine del deserto/ vide colui che fu morto e visse,/ che parlava con dolcezza/ di cieli e terre e tutte le cose/ in luce finalmente nuova» (p. 121).
Una poesia, questa di Rivali, nuova, inconfondibile, capace di afferrare il lettore, di trascinarlo con sé e di percuoterlo con non inutili emozioni.
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