sabato 3 agosto 2013

A che serve il latino? - articolo di Giovanni Fighera

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Perché uno studente del 2013 dovrebbe ancora studiare il Latino?

A che serve il Latino? Quanti lo difendono sono soliti addurre la motivazione che lo studio del Latino insegna a ragionare. Almeno, questa è la risposta della maggior parte dei docenti per giustificare l’apprendimento di una materia antica e morta. Chiaro che la motivazione non regge e i ragazzi comprendono l’inadeguatezza della risposta. Perché non imparare a ragionare con altri metodi meno faticosi, più allettanti? Anche la settimana enigmistica può insegnare a ragionare, anche la Filosofia, anche una dimostrazione di matematica, anche un testo di narrativa o una poesia, un quadro, una musica. Perché dunque faticare così tanto ancora sul Latino ora che siamo nell’era dell’alta tecnologia?

Vorrei partire dalla esperienza quotidiana. Ogni persona sperimenta, infatti, l’efficacia del rapporto affettivo nel fenomeno conoscitivo. Soltanto quando sei colpito da qualcuno o sei affascinato da lui o inizi a volergli bene allora scopri una parte di realtà fino ad allora sconosciuta e il rapporto diventa metodo, strada, chiave di accesso, finestra sulla realtà.
È quanto afferma A. de Saint Exupery (1900-1944) ne Il piccolo principe quando la volpe parla con il piccolo protagonista della storia. Quando questi chiede che cosa voglia dire addomesticare, la volpe risponde:

È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire «creare dei legami» […]. Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo. […] I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano.

La volpe d’ora innanzi, grazie all’affetto provato per il principe, rivaluterà e inizierà ad apprezzare e a capire un aspetto della realtà che fino ad allora era stato percepito come negativo.
In un certo senso per l’uomo tutto ciò che non è amico e non è conosciuto è come se fosse nemico, non valorizzato, non utile per la vita e per la crescita. Quando si ama una persona tutto diventa esperienza in quell’ambito. «Non si conoscono che le cose che si addomesticano», ma per addomesticare occorre tempo. Così, 

gli uomini non hanno più il tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici.

L’affettività può sanare la frattura tra una volontà fragile e malata e una ragione che, se utilizzata senza incrostazioni, sa discernere il bene dal male. Per questo una compagnia umana e un’amicizia sono strumenti imprescindibili per mantenere desta la domanda, per ricercare e per operare. La conoscenza permette, quindi, l’apertura di una finestra sulla realtà o, in altre parole, illumina meglio un pezzo di realtà. Così come il legame con il piccolo principe permette alla volpe di conoscere e apprezzare meglio i campi di grano, così anche la conoscenza del Latino permette di apprezzare maggiormente molti aspetti della realtà. Ma quali?

Solo lo studio e l’esperienza possono testimoniarlo a ciascuno. Anticipo, però, che bisogna avere il coraggio di far fatica, di impiegare tempo (come nell’episodio della volpe), anche quando non se ne comprendono appieno le ragioni, ma continuando a chiedersi le ragioni. Bisogna avere il coraggio di spendere del tempo per imparare bene la disciplina.
   In primo luogo, l’esperienza mi insegna che il Latino spalanca la comprensione del presente come epoca che è figlia di un passato. La nostra tradizione occidentale ha le sue radici nella cultura greca, in quella romana e in quella cristiana. Il ragionamento, la filosofia, il gusto della bellezza, etc. sono in gran parte eredità lasciataci dai Greci, il diritto, il senso dell’unità dello Stato, etc. provengono dai Romani, l’avvenimento cristiano ha, poi, introdotto una nuova concezione della persona, della civiltà, della società, etc. Quindi, studiare la civiltà, la letteratura e la lingua latine significa conoscere le proprie radici, è un po’ come conoscere meglio un proprio genitore. Permette di cogliere ciò che accomuna l’uomo di oggi all’uomo antico e, nel contempo, introduce alla comprensione del cambiamento avvenuto nei secoli.
   In secondo luogo, la conoscenza del Latino illumina il linguaggio e le parole. La lingua e la parola raccontano la storia di una civiltà, dell’evoluzione umana, della cultura di un popolo. Vorrei qui addurre un solo esempio. Pensiamo al vocabolo «cultura». Il fascino di una parola risiede nel fatto che essa descrive una storia, racconta una parte dell’avventura umana. Il verbo latino colo, che è alla base della parola «cultura», sottolinea e descrive il passaggio dell’uomo dalla condizione nomade a quella sedentaria. Il verbo significa «coltivare», «abitare», «venerare». Un popolo che diventa sedentario ha imparato a coltivare la terra, la abita e venera le divinità del luogo. Nel termine «cultura» risiede questo radicamento nelle proprie origini e nella propria terra, senza il quale non è possibile crescere e dare frutti. Da questo radicamento scaturisce la possibilità di trarre linfa vitale, ovvero la possibilità di germogliare, di crescere nel fusto e di dare frutti buoni. Capiamo allora che la cultura non ha a che fare con la conoscenza di tante componenti della realtà, ma deriva da un passato (il terreno in cui siamo cresciuti, la tradizione) e si apre ad una domanda sul presente e sul futuro. La parola «cultura» coinvolge non solo la sfera della materialità (l’aspetto fisico, concreto, pragmatico dell’uomo), ma anche la componente religiosa, include la questione dell’uomo e del suo rapporto con il destino, ovvero le grandi domande dell’uomo. Potremmo anche affermare che il fenomeno culturale si traduce in una capacità di giudizio sul presente e sulla realtà e in un’ipotesi e in una speranza sul futuro radicata nel presente. Un’incursione nella cultura e nell’arte mondiali farebbe emergere fin da subito il loro carattere religioso e metafisico. I Latini pensavano che il termine nomen derivasse etimologicamente da omen, cioè che la parola indicasse in sé il destino dell’oggetto o della persona, le sue caratteristiche specifiche. Nomina consequentia rerum, ovvero i nome sono conseguenza della realtà delle cose.
   In terzo luogo, dai Latini, così come dai Greci, noi deriviamo la retorica, che insegna a scrivere bene, a parlare bene, a persuadere. Nelle scuole dovrebbe essere inserita questa «nuova disciplina», in realtà antichissima. «Saper parlare bene» e «saper scrivere bene» sono due competenze trasversali fondamentali, per usare il lessico frequente nelle scuole, così come il «saper ragionare» e il «saper giudicare». Dal momento che la retorica non viene insegnata come disciplina a sé stante, gli studenti dovrebbero apprenderla nelle materie di Italiano, Latino e Greco. Ma questo accade?
   In quarto luogo, fatto non meno significativo, la lettura delle grandi opere della letteratura latina, di Virgilio, di Orazio, di Seneca, di Cicerone (per citare solo qualche nome illustre) permette di incontrare i «grandi del passato», di confrontarci con loro (come scrive Machiavelli nella lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513), di scoprire il loro pensiero, i loro vertici artistici, … Potrei proseguire con l’elenco delle tante finestre che questa disciplina può aprire durante le giornate, ma sarebbe sterile e riduttivo, perché ognuno di noi deve verificare personalmente quanto sto dicendo.
Ritengo, invece, importante sottolineare che l’apprendimento di una disciplina non è strumentale all’apprendimento di una competenza che deve essere acquisita. La nostra scuola è diventata una scuola delle competenze (del saper fare) spesso svincolate dalla cultura. Le antologie, talvolta, propongono la lettura di una poesia per conseguire una competenza, per imparare un aspetto di stile, o una figura retorica o quant’altro. Questa è una operazione violenta che rischia di far disinnamorare i ragazzi alla lettura, alla poesia, alla narrativa. Quando sei innamorato di una disciplina, quando la ami, capisci che è un’operazione assurda limitarne lo studio per far conseguire agli studenti alcuni obiettivi specifici.
   Comprendi che la cosa più bella è che un’altra persona possa essere affascinato, come lo sei stato tu, da quella bellezza. È questo fascino, questa passione, questo entusiasmo per qualcosa che ci ha preceduto, che è più grande di noi, e che, in qualche modo, ci ha generato la vera scaturigine che può portare un ragazzo a studiare il Latino.

(pubblicato su “La bussola quotidiana” e su “Il sugo della storia”, blog personale di Giovanni Fighera in “Tempi.it”)





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