Quello della Liguria appenninica diventa il paesaggio naturale
moderno, sfondo del drammatico dialogo del soggetto novecentesco alla ricerca
del senso dell’esistenza, con la poesia di Giorgio Caproni, che rappresenta un
definitivo superamento della concezione romantica e decadente del paesaggio
come corrispondenza di stati d’animo e descrizione di luoghi ameni ed
attraenti.
Nella poesia di Caproni[1], infatti, i suoi luoghi privilegiati, Livorno, Genova e
soprattutto la Val Trebbia[2], sono lontanissimi “dal
pittoresco o dal gusto del ritratto impressionistico ed evocativo” per quella
“stupefacente accelerazione intellettuale impressa da Caproni al paesaggio”[3].
Per Caproni la Val Trebbia non è
“la valle più bella del mondo”, come avrebbe scritto Hernest Hemingway nei suoi
diari di corrispondente di guerra, non tanto perché lì ha vissuto vicende di
dolore personale (ma anche di gioia) e storico[4], ma perché
nella sua poesia, fin dalle prime prove, avviene il “mutamento dell’idea e
della funzione del paesaggio. Propriamente il suo è un uso e un’
interpretazione del paesaggio come idea “filosofica”, meglio, come figura
speculativa evocata e plasmata dal di dentro del materiale poetico.”[5]
Il paesaggio non serve a Caproni per comunicare
emozioni, sensazioni o sentimenti: proprio per questo si riduce ad una
spazialità semplificata, espressa da segni geometrici, funzionale al disvelarsi
nel rapporto con il destino visuale e spaziale dell’uomo. E’ un
paesaggio-immagine, muto, sulla cui consistenza e realtà il poeta si interroga.
Questa spazialità di Caproni, in cui le
città (Genova, Livorno) sembrano lasciare sempre più attenzione alla campagna,
contrassegnata da un luogo preciso (la Val Trebbia) con i suoi borghi e la sua
strada Statale 45, rivela il passaggio da una configurazione organizzata ad una
dimensione più vasta, aperta, senza centro. In definitiva è l’itinerario dalle
certezze alle domande: proprio questa dimensione del paesaggio, totalmente
nuova, fa di Caproni il poeta del superamento della tradizione. Con lui
la visione tradizionale della natura e del paesaggio in poesia si apre ad
ulteriori, nuove e moderne possibilità, consegnate e affidate ad altri poeti
sulla soglia del terzo millennio.
Nella Val Trebbia la poesia di Giorgio Caproni ha le
radici della sua ispirazione e della sua prima produzione. E’ un percorso
ancora oggi, nella viabilità, stretto e tortuoso, ma ancora di più lo era
quando il poeta giunse a Rovegno giovane maestro elementare e vi trascorse
poi gli anni della guerra, coinvolto anche nel movimento partigiano.
Proprio dal carattere di questi luoghi trae un
riflesso caratteristico la poesia di Caproni, differenziandosi subito
dall’ermetismo allora dominante: l’essenzialità, sempre limpida, dei suoi versi
prende vigore dall’essenzialità del paesaggio e dei suoi abitanti: poche parole
e grande umanità. Anche le parole delle poesie di Caproni sono poche, ma
essenziali, mai in eccesso, esattamente come le genti di montagna abituate a contenersi,
a limitarsi e a contentarsi di poco. Sono poesie costruite
più sul togliere parole che sull’aggiungerne, come è accaduto in questa valle
in cui la presenza degli abitanti è venuta diminuendo a poco a poco, fino a
ridursi all’essenziale di quanti vi abitano stabilmente per stretta necessità,
senza alcuna concessione al compiacimento, se non d’estate per godere la
frescura, il silenzio e la solitudine dei boschi ombrosi e misurarsi con
l’asprezza dei sentieri.
Le poesie che tracciano il personale itinerario del
poeta lungo la Val Trebbia (Montebruno, Loco, Moglia, Rovegno, Fontanigorda),
con il serpeggiare della Strada Statale 45 tra i boschi, di qua e di là del
fiume, segnano un percorso esistenziale fatto di riflessioni ed interrogativi cruciali
sul destino dell’uomo.
L’inizio sembra gioioso, quasi allegro, con Ballo a
Fontanigorda, che tratteggia “una sera silvana” percorsa da “una montana /
allegria”, offuscata però da una “bramosia / segreta”. Valtrebbia.
Aria fina[6] è luogo di fascino, di attrattiva
particolare per il poeta, soprattutto Loco, dove c’era la casa della moglie
Rina, che sembra invitarlo per uno dei tanti sereni soggiorni estivi: “…Si sta
bene a Loco. / C’è ancora il grano nei campi. / Le amarene mature. / Qui sono
entusiasti.”[7] All’invito della moglie il poeta
risponde con affettuoso apprezzamento per il suo paese: “Nell’aria di settembre
(aria / d’innocenza sul chiareggiato / colle) sopra le zolle / ruvide mi sono
care / le case a colori grezzi / del tuo paese natale”. Sono versi in cui,
però, la serenità, che trova la sua metafora nell’”aria / d’innocenza”,
s’incrina negli enjembement che segmentano il ritmo poetico e
fanno emergere la sottile inquietudine dell’animo del poeta.
“Nel bel verde speranza di quei monti, d’una
roccia rossa così in contrasto col fresco celeste del fiume”[8] si
apre “un sentiero tutto esistenziale”, che sembra suscitare sgomento già nel
nome, è quell’ Orrido del Lupo, di cui parla Caproni in una lettera a Carlo
Betocchi[9] e che ritornerà nella lirica Paesaggio[10]: “Nell’Orrido del Lupo. / Nell’orrido della
vecchiaia. / Di dirupo in dirupo, / la vipera: la sterpaia.”
Da questi luoghi a poco a poco se ne
vanno tutti e restano solo il bosco ed il fiume, ma emergono gli interrogativi
sull’andare e sul restare, o meglio sulla vita, come indicano le Parole
(dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglia[11]: “Chi
sia stato il primo, non / è certo. Lo seguì un secondo. Un terzo. / Poi, uno
dopo l’altro, tutti / han preso la stessa via. // Ora non c’è più nessuno. //
La mia / casa è la sola / abitata. // Son vecchio. / Che cosa mi trattengo a
fare, / quassù, dove tra breve forse / nemmeno ci sarò più io / a farmi
compagnia? // Meglio – lo so – è ch’io vada / prima che me ne vada anch’io.// (…)
// A passo a passo / scenderò nel vallone. / Ma anche allora, in nome / di che,
e dove / troverò un senso (che altri, / pare, non han trovato), / lasciato
questo mio sasso?”[12].
Così il discorso del poeta si
concentra sul “senso”, sul senso della vita che il progressivo allontanarsi
degli uomini da quei monti, da quei boschi, dal fiume e dai sentieri sembra
aver sempre più (forse definitivamente) allontanato, se non vanificato. Resta
la strada verso l’altrove, verso le città (Genova, Piacenza), verso il mondo,
ma questa Statale 45[13] “E’
una strada tortuosa. / Erta. // (…) // A ogni svolta / la sorpresa sovrasta /
l’attesa… // Procedere / con prudenza. // Bandire / ogni impazienza. //
La ripa / si fa sempre più infida. / Più subdola. // Più di una volta / la
presunta meta / si rivela un’insidia.” Così è la vita, tensione, attesa,
speranza, che ben presto si trasformano in inganno e delusione. Ed il paesaggio
della Val Trebbia, proprio per la sua natura primitiva, poco toccata dalla mano
dell’uomo, anzi progressivamente abbandonato, sa farsi metafora del nucleo più
autentico dell’esistenza umana, contrassegnato dall’interrogarsi, a cui si
accompagnano il dubbio e l’attesa.
[1] L’opera in
versi, Milano, edizione critica a cura di L. Zuliani, Milano, Mondadori,
1998.
[2] I rapporti di Caproni con la Val Trebbia, le vicende
biografiche e i riferimenti ai testi sono ampiamente trattati in F. Macciò, L’Alta Val Trebbia nella poesia di Giorgio
Caproni, in «Queste nostre zone
montane », Atti del
Convegno su Giorgio Caproni, Montebruno, 19-20 giugno 1993, a cura di Francesco
Macciò, La Quercia edizioni, Genova 1995,
nel saggio di Adele Dei Toponimi. Appunti per una geografia poetica di
Caproni, in «Resine», aprile-giugno 1998, nella Guida al
Parco Culturale Giorgio Caproni, a cura di Carla Scarsi, Edizioni San Marco
dei Giustiniani, Genova 2000, pp. 77-105, nell’articolo di Alessandro Rivali, Statale 45: la Musa di Caproni, in
«Luoghi dell’infinito», ottobre 2011.
[3] G. Bertone, Letteratura
e paesaggio. Liguri e no. Montale, Caproni, Calvino, Ortese, Biamonti, Primo
Levi, Yehoshua, Manni, Lecce
2001, p. 122.
[4] Evocate soprattutto nei racconti di memorialistica
partigiana raccolti ne Il labirinto,
Milano, Garzanti, 1992.
[5] G. Bertone, op.
cit., p. 126.
[6] Da Litania.
[7] Da Da una
lettera di Rina.
[8] G. Caproni, Dell’emozione,
in Il premio Viareggio ha venticinque
anni, San Giovanni Valdarno, L. Landi, 1955.
[9] 13 luglio 1984 (in G.C., L’opera in versi, cit., p. 1655).
[10] In Conte di Kevenhüller.
[11] In Il muro
della terra. Moglia è un piccolo borgo, ormai disabitato, a cui si accede
percorrendo una strada tra una paesaggio incontaminato.
[12] L. Fenga, Lettura
di «Parole (dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglia», in «Queste nostre zone montane», cit.
[13] L. Surdich, Lettura
di “Statale 45”, in «Queste nostre
zone montane», cit.
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